Ridley Scott Cinema e Visioni della New Hollywood, Riccardo Antoniazzi racconta le colonne sonore

Abbiamo intervistato Riccardo Antoniazzi autore di Ridley Scott Cinema e Visioni dalla New Hollywood di Edizioni Npe. Andiamo a leggere qualcosa in più sulle colonne sonore.

Qual è a tutti gli effetti la colonna sonora più interessante del cinema di Ridley Scott?

Scegliere una sola colonna sonora è impresa ardua, perché ce n’è fior fiore di partiture ad aver motivo di essere studiato da chiunque voglia approcciarsi alla musica da film. La soundtrack che più mi ha stimolato dal punto di vista teorico è forse quella che Hans Zimmer ha realizzato per quel gioiello del cinema anti-bellico che è Black Hawk Down: trovo estremamente affascinante la contrapposizione tra i motivi etnici e l’anima più rock-n-roll/elettronica che emerge per tutto l’ascolto, quasi a fare da ulteriore chiave di lettura all’insensatezza di un così terribile conflitto tra due mondi diversissimi (Somalia e Stati Uniti). I suoni sono brutali, disturbanti, distruttivi come la guerra stessa; l’esperienza d’ascolto è così viscerale e carica di dolore da essere l’unico commento possibile per lo spargimento di sangue messo in scena del regista. In tale ottica le pagine stilisticamente più intimiste (i brani Leave no man behind e Gortoz a Ran cantato da Lisa Gerrard), che alcuni potrebbero tacciare come esaltazione eroica del soldato, diventano reale lamento chi non ha potuto salvare la vita.

Come usa la musica Ridley Scott?

Essendo un regista formatosi come pubblicitario, Ridley Scott sa bene che ogni comparto del film è necessario a raccontare la storia, musica compresa. In ogni titolo il ruolo della musica non asseconda mai le immagini, non è mai mero tappeto sonoro da stendere come riempitivo. Se penso a Thelma & Louise, la colonna sonora (guarda caso sempre firmata da Hans Zimmer) diviene parte integrante dell’esperienza cinematografica e serve a fare da contrappunto enfatico delle scene madri, approccio usato poi pure ne Il Gladiatore e Hannibal. In altre occasioni, Scott richiede espressamente partiture che si integrino con cura filologica alle atmosfere dei suoi drammi storici o di film ambientati in località esotiche: American Gangster è forse l’esempio che meglio si presta alla descrizione di questo concetto, poiché parliamo di un’accurata selezione di pezzi d’epoca funk e pop che ben fotografano l’America a cavallo tra la fine del Vietnam e gli anni settanta.

Chi sono i professionisti impiegati nelle musiche delle sue colonne sonore e come li giudica?

Scott si è sempre circondato di nomi di punta nel panorama musicale (Zimmer, Jerry Goldsmith, Tangerine Dream, Alberto Iglesias, Vangelis) o di talenti che lui stesso ha contribuito a lanciare nel firmamento, da Marc Streitenfeld a Daniel Pemberton; questo a dimostrare ulteriormente quanto la musica sia una carattere fondamentale della sua estetica. Forse a Scott è mancato lavorare con altri pezzi grossi come John Williams, James Newton Howard o Ennio Morricone, ma anche così nulla viene tolto al generale valore compositivo.

Nello scorrere della sua carriera nota un certo tipo di cambiamento nelle colonne sonore?

Che si tratti del ricorso totalmente anarchico di arie classiche in House of Gucci o del dispiego di strumenti d’epoca in Le Crociate o The Last Duel, l’uso della musica cambia sempre a seconda del film che il regista concepisce, riflettendo alla perfezione l’indole camaleontica dello stesso Scott, l’imprevedibilità con cui egli vuole sempre rinnovarsi e distruggere le limitazioni dei generi cinematografici.